Con l’arresto di Matteo Messina Denaro si è animato il solito triste giornalismo che da decenni parla e scrive a vanvera dell’ennesimo accordo stato-mafia; in questo caso la mafia avrebbe consentito la fine della latitanza del mafioso in cambio di non si sa quali favori (visto che ultimamente si sono inasprite le norme sulla carcerazione dei mafiosi). Ovunque nel mondo (e in Italia particolarmente) il giornalismo scadente si nutre di dietrologie complottiste e di mostri messi in prima pagina. È un cattivo giornalismo che tende ad essere servile con l’Autorità giudiziaria (sinistrorsa e amante dei complotti, purché siano complotti di centro-destra).
Quello dell’accordo stato-mafia è una storia che non ha mai trovato riscontri e per di più è costata milioni di euro a noi contribuenti. Ma, soprattutto, ha reso la vita impossibile a fedeli servitori dello Stato, dandoti la sgradevole sensazione di non essere mai al sicuro se un pubblico ministero ti inquadra nel suo mirino. Sento parlare di questa baggianata dai primi anni novanta, quand’ero ancora una giovane investigatrice privata entrata in società nella mia prima agenzia investigativa a Bergamo. Ho seguito a tratti il processo che sembrava surreale, tutto basato sulla testimonianza di pentiti che, dopo l’iniquo arresto di Enzo Tortora e altri disastri, avrebbero dovuto essere gestiti con più criterio.
Nel 1992, poco prima che la licenza della mia agenzia investigativa di Milano venisse abilitata alle indagini penali difensive, Bruno Contrada, Ufficiale di Polizia e funzionario integerrimo, fu arrestato con l’accusa di aver avuto rapporti troppo stretti con la mafia e solamente nel 2017 tornò il buonsenso di riconoscere che per combattere la mafia efficacemente alcuni “rapporti professionali” con certi mafiosi devi per forza intrattenerli e fu prosciolto.
Nel 2012, mentre si parlava di Giusto Processo e tutti noi investigatori privati titolari di agenzia investigativa sognavamo, insieme agli avvocati, un ridimensionamento del potere delle Procure, il Generale dei Carabinieri Mario Mori in cambio della sua fedeltà allo Stato veniva indagato per favoreggiamento della mafia con accuse a dir poco pretestuose e in seguito subì processi farseschi dai quali uscì prosciolto solamente nel 2019.
Il fatto è che molto raramente i magistrati pagano per i propri errori e sono errori che distruggono esistenze, famiglie e aziende ben avviate. Nella carriera di investigatore privato ho assistito clienti della mia agenzia investigativa Cyanea perseguitati ingiustamente dalla giustizia e li ho visti uscirne con le loro sole forze, senza uno straccio di scuse per ciò che avevano subito. Costretti a far lunghe cause allo Stato per vedere riconosciuto un risarcimento, per di più raramente adeguato al danno.